Sono passati dieci anni dall’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, il muratore di Mapello condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. La ginnasta tredicenne di Brembate di Sopra fu attirata da lui con l’inganno la sera del 26 novembre 2010 all’uscita dalla palestra in via Rampinelli, condotta sul suo furgone Iveco Daily nel campo di Chignolo d’Isola, ferita, seviziata e lasciata morire dopo una lunga agonia al freddo e al gelo e ritrovata il 26 febbraio del 2011 fortuitamente. Ergastolo senza dubbio quello comminato dopo una lunga indagine e un complesso processo fondato su una prova granitica: il Dna nucleare sugli slip e sui leggins della piccola vittima, ritrovato in traccia abbondante e contestuale al delitto e ai tagli praticati sugli indumenti da un cutter contentente titanio era di Ignoto Uno identificato come Bossetti. Una “firma” scientificamente incontrovertibile statisticamente sua su 3 milia 700 miliardi di miliardi di miliardi di mondi abitati da 7 miliardi di individui.
Al di là di dubbi inculcati su chi ancora non conosce gli atti o non ha letto le sentenze, magari attraverso una docu serie smaccatamente innocentista, ci sono i fatti e tra questi anche il fatto che a difendere Bossetti, come legale d’ufficio nel giorno dell’arresto sul cantiere di Seriate era un’avvocata inizialmente d’ufficio. Una professionista che, dopo qualche mese, rinunciò all’incarico. L’avvocato Silvia Gazzetti dopo dieci anni ricorda quei giorni come drammatici anche per lei; di certo non era facile il suo lavoro, tutto il mondo attendeva di capire quale strategia difensiva avrebbe potuto adottare un presunto (allora) assassino che però aveva lasciato una traccia così unica e importante sulla vittima. Ecco cosa ci dice oggi:
Avvocato Gazzetti sono passati dieci anni dall’arresto, come ricorda quei giorni?
«Li ricordo molto concitati e oggi la sensazione non è diversa! Ricordo la telefonata che mi arrivò nel tardo pomeriggio del 16 giugno 2014 dai carabinieri di Bergamo che mi avvisarono di essere stata nominata avvocato d’ufficio del signor Bossetti accusato dell’ omicidio di Yara Gambirasio, nomina che poche ore dopo si sarebbe trasformata di fiducia; ricordo la mia concentrazione in quei momenti delicatissimi, il momento in cui arrivai in caserma e presi contatto con lui, il clima teso, le migliaia di pagine di indagine da studiare, il continuo susseguirsi di telefonate da parte dei media e della stampa alla ricerca di qualunque notizia, il giorno dell’udienza di convalida dell’arresto in carcere, gli interrogatori, insomma furono giorni molto molto intensi».
Come ricorda il primo contatto con Bossetti?
«Il primo contatto avvenne in caserma la sera dell’arresto, dove mi fu concesso qualche minuto di parlargli. Non ci fu modo di “empatizzare” nè di farmi davvero un’idea, io cercai di spiegargli i motivi dell’arresto, poi quali erano i suoi diritti, ma null’altro. Io stessa volevo capire di più».
Un avvocato non deve necessariamente credere al suo assistito, ma deve fare di tutto per evitargli il peggio, ovvero il massimo della pena. Lei riuscì a parlargli di questo a immaginare una strategia con lui?
«Bossetti sin da subito si dichiarò innocente e una volta avuto accesso agli atti processuali, cominciai a studiare e a cercare dei riscontri. Lentamente, tenuto conto della complessità del caso, del fatto che le indagini del Pubblico Ministero non erano ancora chiuse, e dunque su molti aspetti vigeva il segreto istruttorio anche per la difesa; e di tutto quello che piano piano stava emergendo, cominciai a valutare una possibile strategia difensiva», anche perché quel Dna era “ingombrante” da scardinare.
A quel punto, però, il comportamento di Bossetti iniziò ad infastidire il legale. senza che lei lo confermi immmaginiamo che a lei, il suo difensore, raccontava alcuni fatti, ma poi dalle intercettazioni in carcere con la moglie Marita, emergeva altro (ad esempio le lampade abbronzanti nei negozi a due passi dalla palestra, il furgone che era in quella zona di Brembate quel giorno, l’alibi per quella sera non supportato dalla moglie). Da non dimenticare le “inconciliabili posizioni” della Gazzetti rispetto a quelle del co difensore Claudio Salvagni nominato dalla famiglia di Bossetti. «Non c’è mai stato un motivo segreto sull’abbandono del cliente, non ritenevo più sereno il rapporto con l’altro difensore per le decisioni importanti da prendere per la difesa», ha ribadito senza sbilanciarsi.
È ancora molto diplomatica l’avvocata, e non vuole ammettere che probabilmente avrebbe consigliato a Bossetti una strategia alternativa che gli avrebbe di sicuro evitato l’ergastolo. La stessa che in cuor suo avrebbe consigliato Enrico Pelillo, da sempre avvocato dei Gambirasio con Andrea Pezzotta. «La storia non si fa a ritroso, ma tecnicamente si sarebbe potuto tentare di contestare un preterintenzionale, una confessione in cui ammettesse di essere stato lì ma di non averla voluta uccidere, oppure consigliare un abbreviato condizionato ad una perizia. Scegliendo il dibattimento ovvio è stato più complicato scardinare una prova scientifica così granitica». La Gazzetti ha seguito il processo a distanza accettendo la sentenza. «So che il processo è stato molto lungo, il caso era certamente complesso da un punto di vista probatorio, visto il tecnicismo delle prove accusatorie. Nonostante ciò, i giudici non hanno avuto dubbi, tanto che sia nei gradi di merito che di legittimità le sentenze hanno confermato sempre lo stesso verdetto di condanna».
La docuserie di Netflix che riprende nelle immagini dell’arresto anche lei, non l’ha ancora vista e non sa se lo farà, per non rinverdire le sofferenze di quei giorni. «I genitori di Yara non li ho mai conosciuti, ma ho sempre cercato, compatibilmente con il ruolo che avevo in quei mesi, di avere il massimo rispetto per loro e per la piccola Yara che nessuno di noi può dimenticare». Su altre domande “scomode” lei preferisce il no comment.